Il cappello di Guido Anselmi all’asta

Leggi su Biró Ho visto per la prima volta Otto e mezzo tra i sedici e i diciassette anni: lo davano in tv in seconda serata, era dopo il cenone di Natale o di Capodanno, sicuramente una delle serate che intercorrono tra l’uno e l’altro. Non l’ho capito, né allora né probabilmente adesso. Gli occhi iniettati di insonnia e sfiancati dall’odore del cibo cucinato e consumato che permeava ancora la cucina, il corpo raggomitolato in un angolo del divano con ogni muscolo sospeso a metà tra un atteggiamento di difesa e uno di abbandono, e davanti a me il rettangolino della televisione che comprimeva la figura fascinosamente canuta di Mastroianni che si aggirava in un delirio in bianco e nero, come prostrato dal passaggio di una febbre ormai lontana che ha lasciato dietro di sé una scia di effetti collaterali invalidanti e irreversibili.  Una febbre che si avviluppa intorno a un organismo debole, un male poroso che assorbe tutto ciò che avvolge. Un uomo debole come Guido Anselmi, afflitto da un male necrotico: l’assenza di parola. O ancora meglio, il deteriorarsi della parola nella sua ripetizione, lo sbriciolarsi della parola nel suo osceno replicarsi sulle bocche, sulla carta, sugli schermi. Guido non ha più niente da dire perché ha detto troppo, a sproposito e vanamente. Ha venduto le sue parole, le ha iniettate di menzogna, le ha impilate una sopra l’altra per nascondersi. «Una crisi di inspiration? E se non fosse per niente passeggera, signorino bello? Se fosse il crollo finale di un bugi […]

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