Blood Diamond | Essere padre

Leggi su In fuga dalla bocciofila di Gianandrea Frighetto Ho capito cosa volesse dire essere padre il giorno in cui sono morto. Il mattino ho baciato la fronte di Lya che sporgeva dalle coperte, mentre la sera ho visto sparare ad Abraham. Nel mezzo c’è stata Goma. Un reticolo di strade e baracche erette sui fossili della malaria, della guerra e del Maafa, mai davvero dimenticati negli occhi della gente. Una paura tanto viva che potresti incrociarla tra le vie di fango. Uko nani? Unaenda wapi? Chi sei? Dove vai? Ti chiederebbe, come tutti quando vedono un bianco girare per la città. Anche quel giorno, appena sono atterrato, l’odore della terra mi ha riempito i polmoni. Sapeva di fango, pelle e sangue. Abraham mi aspettava fuori. Lo conoscevo da anni, ma non ricordo di avergli mai rivolto una parola oltre a jambo. Saliti nel vecchio Defender, l’aria pressurizzata ha lasciato posto al profumo del maboké avvolto nelle foglie di banano. Abbiamo fatto tappa all’albergo: un edificio dall’architettura coloniale, le finestre strette e pareti rappezzate con assi di legno. Abraham è rimasto seduto ad aspettare sul cofano, lo sguardo puro come un diamante alle montagne che tagliavano l’orizzonte. Sono uscito con solo la valigetta dell’azienda e il nome dell’intermediario impresso nella mente. La gente con cui trattavo era solita usare soprannomi e nessuna ufficialità. Questa volta avevo a che fare con un certo Sukari, Zuccherino. Le ruote del Defender hanno lasciato il sentiero di baracche e puntato le tracce visibili so […]

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