Nel nome del corpo. Affamata di Melissa Broder
Esiste un principio di autoconservazione latente in tutti, che si manifesta in modalità più o meno intense e consente di preservare se stessi dal mondo esterno. Può nascere da un istinto primordiale di autodifesa davanti al dolore, o come palliativo da opporre al vuoto e all’insensatezza della vita. Era evidente, ad esempio, nella scelta della protagonista di Il mio anno di riposo e oblio, con la scelta di ibernarsi in vista di tempi migliori.Leggendo Affamata (in originale, Milk Fed) di Melissa Broder, tradotto da Chiara Manfrinato per NN editore e la sua collana Le fuggitive, sembra di assistere a una nuova forma di tutela. Qui troviamo Rachel: vive a Los Angeles, lavora in un’agenzia di talent management hollywoodiana e conteggia l’apporto calorico quotidiano. Non le importa granché di nulla in particolare, «importa solo cosa, quando e come mangiavo». Barcamenarsi nella giornata e non avere pieno controllo delle calorie che assume – almeno due volte a settimana si ritrova a dover pranzare ad esempio con clienti dell’agenzia – aggiunge ulteriore ossessività con cui fare i conti. È, tutto sommato, un modo di stare al mondo come un altro, secondo Rachel. Consolidato il modus operandi, non resta che continuare con pervicacia ad affamarsi, rispettando la ferrea tabella di marcia. In questa narrazione a una sola voce – Rachel è in continuo dialogo solo con sé stessa al sol fine di assecondare il suo disturbo – interviene però un deus ex machina. È Miriam, la sostituta del dis [...]