Orbite vuote. Lazzaro e Auschwitz
«Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti, torno per dirvi tutto, vi dirò tutto.» T.S.Eliot, Canto d’amore di J.Alfred Prufrock «Quando Lazzaro uscì dal sepolcro, dov’era stato tre giorni e tre notti nell’enimma sovrano della morte, e vivo ritornò alla propria dimora, nessuno colse in lui quella funesta estraneità che rese terrifico col tempo il suo nome stesso». Convergenza imperdonabile tra due destini, la traduzione è, dovrebbe essere, un aderire al testo «perché esso muoia bene», come l’assassino aderisce anima e corpo alla sua vittima. Ceronetti parla di una distruzione inevitabile portata dall’incontro tra due intuizioni, nel passaggio da una poesia a un’altra, almeno «se non si è troppo stupidamente vissuto». Il sopravvissuto sconvolto della Grande Guerra, Clemente Rebora, traduce nel 1919 Lazzaro, dello scrittore russo Leonid Andreev. Piero Gobetti saluterà la sua traduzione come «un capolavoro, e noi in Italia non siamo abituati a lavori di tal serietà e finezza d’arte». Gobetti si sofferma sulla capacità di Rebora di mantenere il colore dell’originale nel senso di una straordinaria relazione di ‘simpatia’ in senso etimologico, attraverso ineguaglianze, sovrapposizioni, ricreazioni audaci, neologismi. In Andreev (appartenente alla generazione successiva a Dostoevskij e Tolstoj e morto in quello stesso 1919) secondo Gobetti si nota il temperamento di un’entusiasta deluso: vede una società che si dibatte senza riuscire a comprenderla, trovando diffiden [...]