Gusto, piacere e libertà nella Parigi di Liebling

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Nel dir cocotte, “loro” oggi non saprebbero dove metter mano – né sulle cosce tremule alla giarrettiera, né sulle pirofile fumanti –, quand’invece “lui” affondò il gusto in entrambe, con la voracità di un ermellino in estro. Tra i pasti. Un appetito per Parigi è di Abbott Joseph Liebling la sentenza sull’universo di culi e culinarie, soprattutto, deglassato tra il 1926-‘27 e il 1939. L’Oltralpe allora aveva un’odorosa sensualità spiccatissima, che ferì quasi mortalmente il giovane giornalista americano (fedele al New Yorker per oltre trent’anni, scrisse di sport, politica, vini e cibo), più che la guerra, sogguardata dal fronte europeo (con i suoi reportage al fulmicotone, guadagnò la Legion d’Honneur). Tanto da battere lunghi articoli incentrati su infinite entrée e docce di Tavel, poi raccolti in «Between meals: an appetite for Paris» da Simon & Schuster, nella New York dei Sessanta. Questo libro ha capitoli sagaci, mette fame e nausea insieme: irresistibile nausea, per il totale corrispondentismo in cui vive Liebling: il coeur de boeuf sfrigolante aglio nel suo piatto è il medesimo che gli batte in petto, pompando Chablis. L’autore racconta di come, invece di studiare alla Sorbona sotto sovvenzione paterna, passò due interi anni a gozzovigliare tra gli arrondissements della Ville Lumière – una mano alla forchetta, l’altra ai seni di spicce eintrîneuses. Lui, ch’era passable, e con vanto («passabile è la cosa migliore per un uomo. Chi è passabile sfugge all’attenzion [...]

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