Ibsen più grande di Shakespeare. Parola di Joyce

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«Venne preso da una grandissima ammirazione per Ibsen: un’ammirazione che ebbe l’effetto di una ventata improvvisa sulle vele d’un panfilo nella bonaccia o di un colpo di timone su un battello alla deriva»: così Stanislaus Joyce, nella sua autobiografia Il guardiano di mio fratello, affermava del fratello maggiore James, studente a Dublino fra college e università, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando vide pubblicato il suo primo articolo, in cui recensiva l’ultima pièce del grande drammaturgo norvegese Quando noi morti ci destiamo, sulla Fortnightly Review (ricavandone 12 ghinee, con stupore dei suoi compagni studenti), sostenendo si trattasse «di una delle opere più grandi dell’autore, se non proprio la migliore». Ibsen venne a conoscenza delle benevole parole che Joyce aveva speso per lui e volle ringraziandolo scrivendogli tramite il suo traduttore William Archer. Sfogliando le raccolte di lettere oggi in commercio di James Joyce, le prime in ordine cronologico sono esattamente quelle inerenti la breve ma significativa corrispondenza del 1900 e 1901 in cui uno sconosciuto studente di Dublino si rivolgeva con grande ammirazione all’illustre maestro di settantratré anni già celebre in Europa (meno nella provinciale Irlanda) e che, ormai anziano e malato, sarebbe morto pochi anni dopo. «Sono un giovane irlandese di diciott’anni e conserverò nel cuore le parole di Ibsen per tutta la vita», scrisse, e se consideriamo che Joyce non fu mai un idolatra – gli [...]

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