L’incubo e la grazia. Rileggere James Purdy

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Siamo seduti in un anonimo cinema notturno di un quartiere modesto. La sala non é deserta ma neppure affollata, ci sono alcune ombre intorno a noi. Il buio è avvolgente ma interrotto da una lama di luce che si spande su un grande pannello nel centro, dove si susseguono immagini di volti, dai connotati ben scolpiti ma di vaga consistenza: ombre, come noi spettatori. In sottofondo sibilano voci, impercettibili ma costanti, e fruscii di vesti – forse gambe che si accavallano, si piegano in cerca della posizione più comoda. Leggere James Purdy è una delle visioni cinematografiche più strane. È come guardare la stessa scena, sempre uguale ma sempre irrepetibile, dove non contano il quando, il dove, il chi. Contano solo i nostri occhi fissi nel tentativo di misurare ciò che è silenziosamente immisurabile. Di James Purdy (1914-2009) possiamo leggere una ventina di romanzi, tantissimi racconti (in Italia negli ultimi anni grazie alle ripubblicazioni di Racconti edizioni) e circa una dozzina di testi teatrali.Statunitense fino al midollo (nato nell’Ohio, vissuto a Brooklyn, morto nel New Jersey) è stato, come tanti altri, figlio poco amato dalla propria madrepatria. Ma se di fronte alla durezza del proprio genitore molti se ne sono andati lontano, nel continente Europa a cercare conferme in matrigne più gioviali e lungimiranti, Purdy è rimasto attaccato al proprio suolo, cantore cocciuto, una pulce nell’orecchio dei mastodontici e un po’sordastri Usa. Le opere di James Purdy non so [...]

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