L’elastico sul tempo. Leggere Lucia Calamaro attraverso il teatro-canzone

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«Cerco un gesto, un gesto naturale, per essere sicuro che questo corpo è mio», scriveva e poi cantava Giorgio Gaber, forse il più “fisico” dei nostri cantautori, senz’altro il più teatrale. Di fatto, in effetti, questo fa il teatro. Cercare un moto, una postura, un agire, scegliere il più adatto ad essere finto, affinchè appaia più vero, per accertarsi, attraverso lo strumento corpo, del proprio stesso esistere. Non è così insolito, a ben guardare, che venga in mente lui leggendo le parole di Lucia Calamaro, una delle più acute e talentuose penne teatrali italiane, di cui è forse poco italiana la penna, debitrice di una migrazione fra continenti, da Montevideo a Parigi, che ce la restituisce pienamente romana, con una prosa che della Città eterna ha il passo concitato e rilassato a un tempo, la luce a tratti violenta, forse le contraddizioni tra il dovere dell’eroismo e una naturale vocazione all’indolenza. Bisogna partire dal teatro perché il suo Diario del tempo, edito da Fandango è – e non potrebbe essere altrimenti – un pezzo di teatro, costretto alla pagina scritta dalla contingenza, la stessa che lo ha fatto nascere: la stasi forzata della pandemia che ci siamo già affannati a metterci alle spalle. Ma che resta – e lo si scopre leggendo queste pagine – nella memoria profonda del corpo, la plasma e la condiziona anche quando la coscienza la respinge. Da quel dolore rimosso e sottaciuto appena è passato il tempo adeguato e opportuno per condividerlo, Lucia Calamaro ha [...]

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