Figli della precarietà col mindset. Una conversazione con Francesco Pacifico

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Gaia lavora per una fondazione culturale di Roma e, durante una settimana di team building in Sud Tirolo, subisce una molestia. Tempo dopo incontra uno scrittore, Francesco, che è la voce narrante, e gli racconta in dettaglio quanto le è capitato. Leggendo Il Capo (Mondadori, 2023), l’ultimo romanzo di Francesco Pacifico, assistiamo a una ricostruzione che, con grande maestria, trasmette sensazioni spesso in contrasto fra loro, dal disgusto al divertimento, dalla curiosità voyeuristica alla commozione e alla rabbia; all’immedesimazione. Quest’alternanza, così ben equilibrata nel ritmo, è sorretta da due elementi: una scrittura talmente onesta, solida e consapevole che, persino quando include il linguaggio delle chat e delle emoticon, non dà mai l’impressione del superfluo, del gioco fine a se stesso. Ma soprattutto è sorretta da un’intelligenza – rara nel panorama italiano – che analizza il complicatissimo rapporto fra uomo, donna, lavoro e potere senza scadere mai nel banale o nel pietismo. O, peggio ancora, nella provocazione gratuita. Ecco, da qui, e cioè da come Pacifico è riuscito a gestire (in poco più di 150 pagine) tale complessità psicologica, politica e letteraria, abbiamo iniziato la nostra intervista. Questione spinosissima: esiste un modo per empatizzare con i capi?Purtroppo sì. Sarebbe meglio se non ci fosse.  Durante le tue ricerche, non soltanto in occasione di questo libro, qual è la forma di prevaricazione che più ti ha impressionato?Non c’è un picco [...]

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