Il picche nicche di Alberto Moravia
Natale, Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana, chissа perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me, sono un macello. E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che, alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo. Forse ai tempi che Berta filava, Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere: ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così, adesso la fanno. Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho pensato che per il pasticciere, per il pollarolo, per il macellaio, quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e la tavola traboccante.
Del resto, per farvi capaci che ho detto la verità, guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini, piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in un porto di mare, nelle prime quattro botteghe. Nella mia cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco, e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno, qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro, invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi, con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far leggere o scrivere.
Basta, qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa: «Senti, Egisto, che bell’idea… Crociani ha detto che a Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine dell’anno.»
«E che cos’è il picche nicche?» domandai.
«Beh, sarebbe il cenone tradizionale.»
«Tradizionale?»
«Sì, tradizionale, ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno.»
«Questo è il picche nicche?»
«Sì, questo è il picche nicche… De Angelis ci metterà i tortellini, Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i tacchini…»
«E noi?»
«Noialtri dovremmo portare il panettone.»
Non dissi nulla. E lei insistette: «Non è una bella idea questo picche nicche?… Allora gli dico che ci stiamo?»
Stavo seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi. Dissi, finalmente: «Per me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto… De Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino, Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini… ma io che ci ho? Un corno… il panettone debbo comprarlo.»
«Che c’entra?… anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in bottega… che c’entra… lo vedi che sei sempre il solito… vuoi sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile… e poi ti lamenti che le cose non ti vanno bene.»
Insomma discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: «Va bene, digli che ci sto al loro picche nicche… porteremo il panettone.» Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi il panettone bello e grosso.
L’ultimo dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io, dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo cristallo, con i loro colori.
A mia moglie, la sera, chiudendo bottega, dissi: «È inutile che mangiamo… tanto la mangiata la facciamo a mezzanotte con il picche nicche… non fosse altro che il panettone che porto io, c’è da mangiare per cento.» Ed effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io.
Alle dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa proprio sopra il negozio. I Crociani credo che ci abitassero da più di cinquanta anni: ci aveva abitato il nonno quando la fiaschetteria non era che un’osteriola dove gli operai andavano a bere il quintino; il padre che l’aveva ingrandita vendendo il vino all’ingrosso; adesso, ci stava Adolfo, il figlio che, oltre al vino, vendeva anche il whisky e gli altri liquori stranieri. Era uno di quegli appartamenti malandati della vecchia Roma, tutto corridoi e stanzette; ma Crociani, un giovanotto con le guance gonfie e gli occhi piccoli, ci guidò con orgoglio nella stanza da pranzo: salute che bellezza. Tutti mobili nuovi, di mogano lucido, con le maniglie di ottone e le zampette sottili di acero bianco. L’ultima volta che l’avevo veduta, quella stanza, era ancora come in passato: con un tavolone andante, le seggiole di paglia, le fotografie alle pareti, e, nel vano della finestra, la macchina da cucire. Tutto questo, adesso, non c’era più: oltre a quei mobili, notai un grande quadro dorato con un tramonto sul mare; una radio enorme che serviva anche da bar; soprammobili di porcellana in forma di donnine nude, pagliaccetti, cagnolini; e, sulla tavola preparata, un servizio di porcellana dei più fini, stampato a fiorami rosa. «L’ho comprata all’Argentina» mi disse Crociani indicando la stanza, «indovina un po’ quanto l’ho pagata.» Dissi una cifra e lui me la triplicò, gonfiandosi per la soddisfazione. Intanto arrivava nuova gente; e presto fummo al completo.
Chi c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che, quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: «Lascio?» ; c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere; c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola greve della gente del Viterbese. C’erano le mogli loro, tutte infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità, vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio, nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma adesso che si trattava di far festa e i clienti non c’erano, la soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.
Ci mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la frase: «Lascio?» che lui diceva tanto spesso. Ma erano tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e perciò preferii mangiare e tacere. Ai tortellini si fece un po’ di silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente, e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia. Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e, anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che, quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.
Anche questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò «Guarda Egisto come divora… eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare un tacchino simile, Egisto.» Risposi a bocca piena: «Proprio così»; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo detto la verità.
Intanto i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno riempie il cervello. Finiti i tacchini, venne un’insalata che nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese, di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: «Egisto, tocca a te, facci vedere il tuo panettone.»
Io mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone, tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per cominciare: «Questo è un panettone proprio speciale… ora vedrete.» Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché erano intontiti dal vino e dal mangiare.
Finalmente, De Angelis disse: «Ma, Egisto, abbi pazienza, che è sto scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola.» De Santis, che pareva abbrutito, domandò: «E il panettone dov’è?» Io risposi, alzato in piedi: «Questo è un picche nicche, non è vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è vero?… e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna, quaderno, abbecedario.»
«Ma che» disse ad un tratto Tolomei, «sei scemo o ci fai?»
«No» risposi, «non sono scemo ma cartolaio… tu hai portato gli antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno… io ho portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare.» De Angelis disse, conciliante: «Basta, mettiti a sedere, non facciamoci cattivo sangue.» E questa fu la proposta che venne accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate, e tutti bevvero.
Ma, come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi alzai e dissi, il bicchiere in mano: «Visto che non volete bere alla mia salute, il brindisi lo faccio io… Che possiate dunque, durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso, doveste vendere un po’ meno.» Ci fu un coro di proteste e poi Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò: «Ma piantala, iettatore… ci porti sfortuna… vendi i libri a chi ti pare ma non venirci a seccare a noi… anzi, guarda, è meglio che te ne vai… tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato.»
«Allora» risposi «tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?»
«Ma piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio.» Ora tutti mi ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.
Insomma, non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia moglie che piangeva e ripeteva: «Lo vedi che hai fatto… ora ci siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello che è finito.»
Così, discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.
Tratto da Racconti romani, di Alberto Moravia.
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a cura de la Rivisteria
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