Una ninna oscura contro il potere dei padri. Rossosperanza di Annarita Zambrano

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    «E so che domani mattina mi sveglierò tremante di freddo.»Lullaby, The Cure È notte e una tigre attraversa le strade di Roma, silenziosa e paga. Intorno a lei non c’è più niente, o quasi, ha divorato tutto, o quasi, e non ha più fame. Intanto, quattro amici, giovanissimi e scalcinati, salgono sull’auto di uno sconosciuto e lo spaventano. Lo fissano dritto negli occhi e gli raccontano incubi e favolacce. Sono tigri anche loro, bestie che hanno reciso la gabbia, animali affamati, ragazzacci tutti istinto e muscoli magri. Intorno a loro non c’è più niente, o quasi, hanno divorato tutto, o quasi, ma hanno ancora fame. Nella carne c’è la fame: più mangi e più ti viene. Per la strada c’è la fame: la percorri e ne vuoi ancora, vuoi mangiarla per non essere mangiato. «Ho paura di essere divorato da mille milioni di voragini pelose e tremolanti», canta Robert Smith in Lullaby, il capolavoro noir dei The Cure. Non è un caso che sia proprio questo brano del 1989 a trascinare i nostri occhi, e insieme tutti i nostri corpi, in quel buco peloso e tremolante che è Rossosperanza, il lungometraggio di Annarita Zambrano recentemente presentato al Festival di Locarno. Un film che è una ninnananna oscura e disturbante, una filastrocca della notte che gioca con gli incubi e le paure, un sogno lucido di onice nera, che non si sa quando inizia né quando finisce, non si sa – a dire il vero – se mai davvero inizia e se mai davvero finisce. Rossosperanza è una fiaba acid rock, ch [...]

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