Perché vivere? La scrittura e la redenzione di Lev Tolstoj

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Molti scrittori invocano le muse e gli dei – fammi scrivere un buon libro e io crederò in te –, Tolstoj non aveva – non era – altro che se stesso, e il senso di ciò che lo aspettava e di ciò che la vita era giunta a significare per lui è di conseguenza più intimo e commovente. È difficile distinguere l’arte stessa di Tolstoj dalla Natura. Egli si muove tra i fili epistemici di epos che sa di essere il solo in grado di tessere, ha il potere di ordire una struttura intrinseca a ciò che la sua mente crea, di disfare la sua creazione, e talvolta sembra che la voce sia persino sovra-naturale: vede e sa ciò che nessun altro può. Ci vuole un briciolo di perversione per godere della lettura di Tolstoj, perché lui ci scuote, ci percuote, ci critica, ci distrugge nel tentativo di risvegliare le nostre coscienze, vuole punirci per il fatto che non siamo in grado di resistere al suo genio, non ha alcun perdono nei nostri confronti, e noi lo leggiamo lo stesso e godiamo ugualmente. C’è sempre un elemento di paura che ci fa desiderare di sfuggire lo sguardo di Tolstoj fisso su di noi. Perché vivere? È la domanda che anima i libri di Tolstoj, che gira e rigira l’esperienza, il mondo, fra le sue mani, cercando di capire quali dovrebbero essere i nostri scopi. E quando non ne trova, ecco che il mondo diventa polvere e cenere sotto i nostri piedi. Il demone poetico che fa di Tolstoj un saggio era una personificazione della paura. È strano come la morte decida di rivelarsi [...]

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