Musica, mistica e droga. Platone, Freud, David Bowie

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Quando, in passato, mi è capitato di riflettere sul rapporto tra musica e droga, mi sono sempre tornate in mente quelle pagine del terzo libro della Repubblica lette al liceo, in cui Platone parla della musica e della poesia come di arti nocive alla paideia, ossia all’educazione dei fanciulli futuri cittadini di una società perfetta perché ispirata dalla visione iperuranica, ultra-sensibile, delle idee di giustizia, bellezza, verità.Platone non tratta ovviamente di un eventuale rapporto tra musica e droga – anche se stupefacenti naturali esistevano già nel quarto secolo avanti Cristo, probabilmente usati nei riti iniziatici che si svolgevano a Eleusi, i cosiddetti “misteri eleusini” – ma parla della musica stessa come di una droga.Questo resta, a mio avviso, un punto fondamentale, se non si vuole analizzare la questione secondo “canoni” banali, costruiti sul connubio tra rock e trasgressione e corroborati dalla ricca aneddotica relativa alle vite eccessive e fragili di Brian Jones e Jim Morrison, di Janis Joplin e Jimy Hendrix, di Kurt Cobain e Amy Winehouse, componenti del cosiddetto “Twenty Seven Club”, immaginario circolo a cui vengono associate le rockstar morte per overdose ancora molto giovani, a soli ventisette anni.Punto fondamentale perché, se è vero che la musica agisce come una droga, il suo legarsi agli stupefacenti risulta allora artificioso se non posticcio, a meno di supporre che non sempre chi l’ascolta o anche la compone ed esegue a livelli sublimi come i [...]

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